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I tessuti di “House of Gucci”



Le nebbiose serate milanesi di questo dicembre sono state la cornice ideale per celebrare due grandi eventi attesi da mesi: il “Macbeth” alla Scala di Milano e il debutto in anteprima del film “House of Gucci”.


Molti commentatori hanno sottolineato alcune curiose analogie che possiamo riscontrare fra il dramma shakespeariano ripreso e musicato da Verdi e il Blockbuster di Ridley Scott, evidenziando come in entrambe le vicende l’escalation di bramosia di potere delle due Ladies, Macbeth nella tragedia letteraria e Patrizia Reggiani nella realtà (rappresentata da una bravissima Lady Gaga), portino alla completa demolizione delle famiglie e alla fondazione di un nuovo ordine.


Nell’assistere al film, la mia attenzione si è focalizzata sul lavoro svolto dalla costumista Janty Yates (premio Oscar migliori costumi 2001 per “Il Gladiatore”), la quale, in una sorta di curiosissimo meccanismo meta-cinematografico, ha avuto il compito di creare un guardaroba di indumenti che rappresentassero la loro stessa iconicità.


È bene precisare che non proprio tutti i 54 outfits indossati nel film da Lady Gaga appartengono alle collezioni di Gucci; ad esempio, in una delle scene cult del film (Father, Son and the House of Gucci), l’attrice newyorkese indossa un abito a pois viola/nero di concezione Saint Laurent. Come dichiarato da Janty Yates: “Negli anni 70 il design di Gucci era molto round and brown, c’era molto tweed ed erano gli accessori, borse, scarpe e cinture ad essere i prodotti in cima all’ ordine di importanza”. In un altro momento topico del film, “Our name, Sweetie”, l’alter ego di Patrizia Reggiani veste invece un total look a maniche lunghe decorato a tutto campo con il monogramma a doppia GG, simbolo della Maison, quasi a sottolineare una sorta di incarnazione all’interno delle vicende famigliari.


Coprotagonista del film è Maurizio Gucci, il cui abbigliamento simboleggia in modo perfetto i valori estetici espressi dal brand fiorentino, che ne hanno causato la traiettoria a parabola su cui il regista si sofferma. Dal tuxedo della prima scena alla festa, al falso Galles saxony del tragico epilogo, Maurizio è sempre troppo “perfetto nel suo aplomb Savile Row” e rigidamente ancorato agli pseudo valori famigliari per cogliere con la giusta intuizione le nuove istanze proposte da un mondo in cambiamento e trasformazione. Come un altro eroe tragico Shakespeariano, Riccardo II, rimane aggrappato al concetto che il proprio potere provenga per appartenenza ad una dinastia, quasi una sorta di re per grazia divina, e non si dimostra pronto ad affrontare le nuove sfide della “Milano da bere” presidiata dai nuovi nomi del Made in Italy.


Adam Driver stars as Maurizio Gucci in Ridley Scott’s HOUSE OF GUCCI A Metro Goldwyn Mayer Pictures film Photo credit: Courtesy of Metro Goldwyn Mayer Pictures Inc.© 2021 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.Courtesy of Metro Goldwyn Mayer Pictures Inc.

Proprio a questi nomi, Armani, Versace, Ferré, la famiglia Gucci avrebbe voluto appellarsi per far fronte alla insostenibile situazione economica del brand, ma è a questo punto che si rivela in tutta la sua abilità l’oscuro avvocato Domenico de Sole, quasi il nume tutelare della Maison. Lo stile della casa di moda cambiò repentinamente: venne assegnato al giovane Tom Ford il compito di disegnare la collezione menswear sfilata a Firenze e womanswear sfilata a Milano.


Parallelamente al lavoro eseguito da Lagerfeld in Chanel, lo stilista texano riuscì ottimamente a coniugare i valori archetipi del marchio con nuova linfa creativa. Tom Ford ripropose una nuova immagine di Gucci, e la traghettò ai vertici della moda internazionale tramite un’espressione creativa erotica e lussuosa. Ricontestualizzò le pellicce aggiungendo i colori pop art acquisiti nell’entourage di Andy Warhol e dello “Studio 54”, presentò abiti e pantaloni cut-out, tonalità total white, ricami preziosi, calzature in pitone, décolleté con morsetto e rivisitazioni dell’iconica “Jackie O Bag”. Contribuirono a diffondere le nuove atmosfere glam della griffe le immagini dei grandi fotografi dell’epoca da Richard Avedon a Helmut Newton; in dieci anni il giro d’affari della maison fiorentina si decuplicò.


Il film termina con le scene del delitto e della successiva incarcerazione di Patrizia Reggiani, ma la storia di “House of Gucci” prosegue oltre il “the end” cinematografico con l’acquisizione del marchio da parte del gruppo Kering e con l’attuale direzione stilistica di Alessandro Michele. La collaborazione De Sole/Ford col gruppo Gucci proseguì sino al 2004; nel 2005 dalla collaborazione dei due nacque la Tom Ford International e nel 2007 venne aperto il primo store sulla Madison che ospitò la collezione nata in collaborazione con Ermenegildo Zegna a cui ho avuto l’onore di partecipare con il lanificio di cui ero comproprietario.


Sullo sfondo del film rimane lo stilista di famiglia Paolo Gucci, ridotto quasi a macchietta da Jared Leto, troppo colorato nei suoi completi Galles e nei suoi velluti dalle tinte tendenti al rosa Norfolk, albicocca e salmone, all’ abito check verde su fondo navy, looks realizzati volutamente esagerati dalla sartoria napoletana Fratelli Attolini (La grande bellezza, Paolo Sorrentino, 2013). Il totale disfacimento della persona viene rappresentato dalla tuta indossata con sciatteria, che presagisce la fine della dinastia in cui pare intravedersi il personaggio shakespeariano “The Fool”, il buffone di corte che si rivolge al suo King Lear: “Io sono meglio di te. Sono un pazzo e un buffone, ma tu non sei più nulla”.

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